
Da Palermo dove è nato, il Maestro Salvatore Sciarrino ha scelto di risiedere a Città di Castello, come ha raccontato anche in una recente intervista al Guardian.
Le sue opere sono state eseguite e apprezzate nei più importanti teatri del mondo, dalla Scala di Milano, al Lincoln Center di New York, ma da ormai molti anni, il luogo dove vengono concepite e composte è qui tra le nostre valli.
The Mag ha incontrato il Maestro Salvatore Sciarrino e ne è derivata una chiacchierata all’insegna dei ricordi: dagli esordi adolescenziali, alla composizione musicale e a cosa vuol dire essere artista.
L’intervista
Lei è un esempio di artista autodidatta: come è riuscito a emergere nel mondo della musica classica dove la formazione accademica sembra imprescindibile?
Salvatore Sciarrino: Essere un autodidatta mi sembrava agli inizi una vergogna, poi durante il periodo dell’insegnamento in conservatorio ho cominciato a vantarmene. Oggi, osservando come si insegna male la creatività, dovrei ricominciare a vergognarmene.
O no? Penso che il mio percorso sia anomalo ma non sbagliato. Tutti dovrebbero formarsi come ho potuto io.
Quando sono arrivato a insegnare al conservatorio per esempio c’era una certa libertà. Io ero molto timoroso, insicuro della mia formazione, ma negli anni mi sono reso conto che si insegnava la grammatica a chi voleva diventare poeta.
In pratica si spostava l’accento dall’importanza estetica a elementi di pura enigmistica. Invece l’unica cosa importante è stimolare la creatività infantile, a tutto raggio e senza costrizioni.
Altrimenti si generano macchine contabili, anziché sviluppare la curiosità, l’amore e l’interesse per il mondo.
Questo sarebbe il compito della scuola che invece purtroppo tende a distruggere la creatività.

Come può emergere allora l’artista?
Salvatore Sciarrino: Ognuno ha bisogno di coraggio, energia, soprattutto se la posizione in cui si pone è controcorrente. Per me è stato così.
A un certo punto mio padre e i miei fratelli mi hanno prospettato con una certa pressione delle alternative alla musica. In pratica o lasciavo la musica o me ne andavo. Senza il loro ultimatum non avrei mai avuto il coraggio di lasciare Palermo.
Aver assimilato e superato quel rifiuto mi ha reso inquieto, spinto sempre a cercare, andare…
Cosa l’ha avvicinato alla musica?
Salvatore Sciarrino: Credo che l’ambiente determini gli stimoli che il bambino o l’adolescente sceglie di assumere su di sé.
Nel mio caso, l’approccio alla musica e all’arte è stato più una passione totale, una mania, una malattia se vogliamo.
Io stesso mi stupisco di come a un certo punto abbia abbandonato tutti gli altri interessi per la musica. Però è vero che ero un bambino particolare.
Sebbene i risultati non fossero straordinari all’inizio…
Quindi la famiglia è stata la prima influenza…
Salvatore Sciarrino: Sicuramente l’ambiente familiare e le abitudini mi davano appiglio. Non mio padre, ma mia madre e mia sorella cantavano da dilettanti e quindi erano appassionate di musica.
Ho due fratelli maggiori, uno dei quali aveva cominciato a comporre musica, però lo faceva in un modo che io ho rifiutato. Per lui la musica era un hobby, non richiedeva impegno, mentre per me la musica è importante e non può compiacere solo se stessi.
Oggi si tende a considerare la creatività come patrimonio di tutti, nel senso che tutti possono essere artisti. Io non sono d’accordo.
Cosa distingue l’artista dal creativo?
Salvatore Sciarrino: La creatività è di tutti, non c’è cellula vivente che non sia creativa.
L’essere artisti è una cosa diversa, perché vuol dire ogni volta entrare in crisi e trovare il modo di uscirne.
Solo vincendo l’inerzia del proprio mondo personale si può sperare di accedere a un linguaggio che accomuna le persone.
E quello è il mondo dell’arte. La cultura è qualcosa che tiene unita e caratterizza la società.

Ci racconti, come è arrivato a Città di Castello?
Salvatore Sciarrino: Lasciata Palermo, sono andato a Roma. All’inizio non è stato facile sopravvivere, ma furono gli anni più belli.
Non è la sicurezza del denaro che fa la differenza, ma è l’atmosfera che si riesce a creare, a vivere, a recepire dagli altri. Lavoravo come copista per la Ricordi, eseguendo lavori che altri copisti rifiutavano perché troppo difficili da decifrare (sempre nell’ambito della musica contemporanea).
È stata una fortuna che mi ha permesso di perfezionare la mano e impratichirmi del mestiere.
Ricevevo compensi tali da lavorare due mesi l’anno e per il resto mi dedicavo alla composizione.
Dopo Roma Milano…
Salvatore Sciarrino: Proprio con Ricordi ho firmato il contratto di esclusiva come compositore e così è finita la carriera di copista.
Ricordi era a Milano e lì mi sono dovuto trasferire. Nel 1972 ho esordito alla Scala e in seguito sono partito per il servizio militare, senza il quale non avrei potuto insegnare.
Al Conservatorio di Milano, il Direttore Marcello Abbado mi ha scelto grazie ai titoli artistici che a quel tempo contavano come i titoli accademici che io non avevo.
Ero invece già noto come compositore.
E Città di Castello?
Salvatore Sciarrino: Di fatto ero stufo di Milano, mentre già tenevo a Città di Castello i corsi estivi di composizione.
Era il periodo in cui si respirava la speranza che il centro storico potesse rinascere. Così ho comprato la casa che ho adesso e di cui mi ero innamorato perché luminosissima.
È stato uno degli avvenimenti più significativi per la mia vita. Non nascondo che ho avuto dei ripensamenti, mi sono trasferito per un periodo a Cortona. Però quel paesaggio sconfinato è qualcosa che non è entrato nella mia vita.
È bellissimo ma è come guardare da lontano una cartolina… qui amo la varietà delle colline: un mare che non si finisce mai di esplorare con onde di boschi una dietro l’altra a seconda della luce. È qualcosa di insostituibile.
Cosa consiglierebbe a chi si avvicina alla composizione?
Salvatore Sciarrino: Io mi abituerei a qualsiasi tipo di musica.
Cercherei di aprire la testa alla curiosità. Perché il mondo della cultura è un mondo di viaggi.
E nel viaggiare bisogna godersi l’altro da sé. Occorre scoprire non solo conoscere.
È l’avventura della scoperta, più del viaggio in sé, a dare emozione ed energia.